Una chiacchierata piacevole e, come prevedibile, non scontata e ricca di spunti. Business e letteratura. Cinema e comunicazione.
Piero Armenti è uno degli italiani più influenti del web: un narratore (raffi)nato.Per noi di Beclay, soprattutto un amico e un compagno di viaggio
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Piero, partiamo dal presente. Come ti senti?
«La situazione di emergenza si è trascinata aldilà delle aspettative, difficile fare una previsione per il futuro: spero si riesca a tornare presto alla normalità. Penso che il turismo domestico sarà il primo a riprendere, per quello internazionale bisognerà aspettare ancora qualche mese. Salvo spiacevoli sorprese sono convinto che ritorneremo a vivere le nostre vite alla grande».
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Le restrizioni e la paura freneranno la fase di ripartenza? Il comportamento del turista sarà condizionato?
«Le restrizioni e un’iniziale confusione su come viaggiare e a quali obblighi adempiere genereranno sicuramente qualche piccolo disagio. La paura credo che stia scemando, soprattutto tra le persone vaccinate; comunque la voglia di tornare a viaggiare è evidente. L’autunno sarà decisivo: se i numeri continueranno a calare e non ci saranno nuove restrizioni potremo davvero dire di aver superato l’emergenza. In caso contrario, per il settore turistico il colpo sarebbe devastante».
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Sono – soprattutto sono stati – mesi inediti: in molti ci siamo ritrovati, forse per la prima volta, a guardarci davvero allo specchio. Questa pandemia, a livello introspettivo, cosa ti ha suggerito?
«Dal punto di vista personale ho accentuato il mio relativismo. La mia tendenza anarchica e contraria a qualsiasi tipo di intervento statale nella vita degli individui ne è sicuramente uscita rafforzata».
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E imprenditorialmente?
«Ha confermato quello che ho sempre pensato: diversificazione è la parola chiave. Per fare business ed essere pronti ad affrontare qualunque tipo di scenario, anche il più inaspettato come la pandemia, è necessario questo tipo di approccio».
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Ma eccedere con la diversificazione, dando l’impressione di fare troppe cose, non rischia di sminuire il core business?
«Non credo: io, ad esempio, diversifico come tutti gli imprenditori che investono in active business non legati necessariamente alla propria immagine».
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Più di qualche passo e tanti post indietro: oggi sei una celebrità dei social.
«Sapevo che i social sarebbero diventati sempre più importanti nelle nostre vite, avevo chiare le loro potenzialità e volevo sfruttarle. Già nel 2014 era evidente che potesse essere uno strumento di comunicazione turistica; non mi aspettavo, però, che una pagina su New York diventasse, in Italia, fenomeno di massa».
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Unico e magnetico: sono due aggettivi che spesso i tuoi fans ti attribuiscono. Forse starai sorridendo o sbadigliando. Ma, in tutta sincerità, hai mai provato a spiegarti le ragioni del tuo successo?
«Ovviamente l’incredibile bellezza, che mi porta ad essere tra gli italiani più belli al mondo (ride). Scherzi a parte, credo che ciò che, più di tutto, mi abbia premiato sia stata l’autenticità del mio approccio e dei miei contenuti. Poi se c’è una mia particolare attitudine nel comunicare non saprei dirlo, probabilmente con il tempo ho acquisito esperienza, i tempi giusti e, senza dubbio, una conoscenza sempre maggiore dei canali che utilizzo per veicolare i miei contenuti».
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Oggi il cinema si fa guidare dal mercato. In passato era la stessa cosa?
«Ho molti dubbi che il cinema contemporaneo si faccia guidare dal mercato. Se ci fosse realmente un dialogo tra produzione, registi e mercato allora la situazione sarebbe diversa e il livello si alzerebbe notevolmente. In Italia credo che Checco Zalone si avvicini agli standard del passato, sicuramente diverte molto».
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Appunto, restiamo sul cinema ma guardiamo al nostro glorioso passato.
«Penso subito a Totò e Alberto Sordi, che nella mimica facciale e nell’espressività sono stati insuperabili. Proprio in questi giorni ho rivisto “Il vigile” di Sordi. Quei film sono capolavori in grado di raccontarti un’epoca. Livelli altissimi mai più raggiunti».
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I social sono il motore del tuo business. Pensi che l’essere umano sfrutti al meglio il potenziale e le possibilità che la tecnologia offre?
«Siamo immersi da tempo in questo continuo rinnovamento tecnologico, che aumenta le possibilità di comunicazione e di crescita, ma che però non so quanto serva per un miglioramento delle vite individuali. Ma io credo molto nel progresso e invidio già adesso i miei futuri nipoti: avranno nuove possibilità e godranno delle future evoluzioni tecnologiche. Magari in due ore potranno viaggiare dall’Italia agli Stati Uniti».
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Sei seguito e apprezzato da tanti fan. Spesso, però, attiri anche i commenti offensivi di tanti utenti. Cosa pensi ci sia alla base di questo atteggiamento aggressivo nei tuoi confronti? Come te lo spieghi?
«Quando hai molta visibilità sul web gli haters aumentano. Credo sia qualcosa di inevitabile e direttamente proporzionale all’esposizione mediatica. Penso anche che la gente si chieda come io sia riuscito a riscuotere tanto successo, essendo una persona normale senza la pretesa di insegnare nulla di particolare ma semplicemente mostrando aspetti e spaccati di New York e, a volte, della mia vita».
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Come detto, grazie ai social il tuo business è decollato. Ma tu, se potessi, ne faresti a meno? Cioè, ti piacerebbe tornare a vite…analogiche?
«La grandezza della tecnologia è che finisci per adeguarti così bene che non ricordi come era vivere prima: senza smartphone, internet o Facebook. Al tempo stesso, mi sarebbe senz’altro vivere l’epoca del boom economico, a cavallo tra gli anni ’50 e ’60».
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Segui pagine come, ad esempio, Il mio viaggio a Ponticelli? Scherzi a parte: si può dire che hai inventato un genere narrativo?
«Le seguo ed è vero che Il mio viaggio a New York è una delle pagine più imitate. Non posso definirmi inventore di un genere, ma se su Instagram digitate “il mio viaggio”… beh, resterete sorpresi».
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La scrittura ti trasmette più piacere o dolore? E come ne gestisci l’esperienza? Preferisci isolarti o riesci ad integrarla con le altre tue attività?
«Emotivamente non mi coinvolge in modo particolare: non scrivo perché disperato o con l’urgenza di farlo. Sono abbastanza metodico, mi diverte farlo e mi dedico alla scrittura quando è già stato definito l’eventuale percorso editoriale».
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Puoi anticiparci qualcosa del tuo prossimo romanzo?
È il sequel di Una notte ho sognato New York: stesso protagonista, dieci anni più vecchio, più maturo. Al centro c’è un tema secondo me molto importante: ovvero quanto ognuno di noi è disposto a sacrificarsi per amore, a rinunciare cioè ad un po’ dei propri sogni, aspirazioni, obiettivi professionali. Insomma, delle proprie libertà e individualità. <
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Adolescenza ed età adulta: cosa e chi leggevi prima, cosa e chi leggi oggi.
«Ho avuto tanti innamoramenti: da adolescente mi piaceva molto Baricco, poi negli anni l’ho abbandonato. Parlando di scrittori contemporanei c’è il francese Houellebecq: lo apprezzo perché si spinge con cinismo oltre la morale, facendo capire che la letteratura non deve essere necessariamente una cosa bella ma anche cruda e crudele. “Il giocatore” di Dostoevskij è forse il libro che mi ha fatto innamorare della letteratura: tempi narrativi perfetti e avvolgenti. Gli scrittori russi sono maestri in questo. Ho amato tra gli italiani Calvino, stimatissimo ancora di più all’estero. Mi hanno emozionato molto gli articoli americani di Oriana Fallacci: una penna inarrivabile».
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Restiamo su Calvino. Il suo saggio “Lezioni americane” è incredibilmente attuale, una tua riflessione sull’autore e sulle lezioni che ci ha lasciato.
«Italo Calvino era visionario, ironico e surreale. È stato per la letteratura ciò che Fellini è stato per il cinema. L’universalità è il massimo a cui può aspirare uno scrittore. Le sue opere vanno oltre le categorie di tempo e spazio».
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È difficile iniziare le giornate e organizzarle in base ai contenuti che dovrai e vorrai produrre? Ti capita di non sentirti padrone dell’esperienza delle tue giornate?
«Per ora ci convivo in maniera serena, quando tornerà il turismo vero e proprio sarà molto più leggera la cosa. Sicuramente non posso lamentarmi, penso di essere un privilegiato da questo punto di vista. Poi ci sono anche giornate in cui preferisco stare più per conto mio».
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Talento e naturalezza nei contenuti. Ma ti capita di non essere pienamente soddisfatto del tuo lavoro?
«Succede continuamente. Questo è parte della natura creativa, sperimenti cose nuove e analizzi cosa ha funzionato e cosa no. Ma nel mio modo di raccontare l’errore si nota di meno perché propongo un contenuto sporco, una narrazione che definisco sgrammaticata, vera e naturale».
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Sei anche su TikTok. Che idea hai di questo social network? Cosa, secondo te, ricercano le persone e che tipologia di target è presente per il pubblico italiano?
«Mi ha sorpreso. Propongo video di 15’’ in cui racconto micro aspetti di New York. I numeri sono buoni, ho 50K follower, clip che hanno superato il milione di visualizzazioni e una percentuale altissima di interazioni. Ha grossi margini di crescita e un pubblico molto giovane, non interessato solo ai balletti. In America tutti hanno Tik Tok: anche i giornalisti sono molto attivi e, su questa piattaforma, pubblicano brevi articoli. L’algoritmo funziona bene e riesce a catturare l’attenzione degli utenti».
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Grazie, Piero, per la bella chiacchierata. Cosa fai ora?
Vado ad allenarmi. Prima in palestra, poi in piscina. E poi giù in strada a fare ciò che più mi piace: raccontare.