«Sembra un paradosso, eppure la pandemia ci ha spinto a ripensare e, in un certo senso, a riformare la formazione. Ci ha strappato dalle mani la nostra quotidianità, costringendoci a ridisegnarne una nuova».
Il prof. Raffaele Calabrò, Rettore dell’Università Campus Bio-Medico di Roma e vice Presidente della Conferenza dei Rettori delle Università Italiane (CRUI), ha rilasciato un’intervista per la Fondazione Alberto Sordi.
Tanti i temi toccati. Dalla pandemia, alla formazione universitaria e degli assistenti familiari, fino alla futuro del Campus e di noi tutti.
Ospitiamo con piacere sul nostro blog parte di questa intervista.
Buona lettura!
Buongiorno Rettore. Ci può sintetizzare questo ultimo anno e mezzo? Quale è stato l’impatto della pandemia sulle attività del Campus Biomedico?
«Abbiamo vissuto un periodo molto particolare con la pandemia. Le università – in particolare quelle come il Campus Bio-Medico che vogliono avere un rapporto personalizzato con gli studenti, le loro famiglie e con i docenti – hanno dovuto rivedere la propria organizzazione. All’inizio abbiamo dovuto rimodularci attraverso un’organizzazione a distanza della nostra didattica. È stato un “self-test” che ci ha permesso di accelerare processi che avevamo avviato da tempo ma che abbiamo dovuto reimpostare ed estendere a tutta l’Università. Nel periodo del lockdown abbiamo potuto lavorare soltanto così. Tutti si sono adattati molto bene: gli studenti, i nostri docenti, i nostri amministrativi. Anche lo smart working ha funzionato nel modo giusto. Ma noi preferiamo il lavoro in contatto. Ci piace vedere gli studenti che vivono l’università, che si incontrano e confrontano. Siamo convinti che proprio il contatto e lo scambio siano momenti fondamentali di un processo formativo che non è circoscritto all’esperienza della lezione, ma si nutre, appunto, di confronto: una chiacchiera al bar, un incontro nel corridoio, la possibilità per docente e studente di parlare aldilà delle linee classiche. Abbiamo quindi accelerato al massimo per quanto possibile il rientro in presenza. Oggi le attività in presenza sono circa l’80%. Continuano a distanza soltanto coloro che hanno giustificazioni per motivi di salute legati alla pandemia. Altrimenti sono tutti qui ed è stato bellissimo ritrovarsi».
All’inizio di novembre è partito il corso di formazione avanzata per assistenti familiari della Fondazione Alberto Sordi. Quanto è importante la formazione per figure di questo tipo?
«In questo momento storico, ci troviamo di fronte a cambiamenti continui e ad esigenze di professionalità sempre nuove perché è la società stessa che sta cambiando. Possiamo rispondere a queste necessità soltanto se inquadriamo il tipo di formazione di cui necessitano le nuove figure professionali che compaiono all’orizzonte. Sono molto contento dell’attività formativa della Fondazione Alberto Sordi. Mi piacerebbe che, assieme, sognassimo qualcosa: che intorno alle iniziative dei corsi di formazione, si realizzasse un mondo scolastico. Di quella scuola familiare alla quale le persone sanno di poter accedere per avere consigli, partecipare alle attività e trasmettersi esperienze, da rigiocarsi nella società e negli ambienti di lavoro. Credo molto nella formazione di queste figure e nel loro impatto positivo in ambito familiare e, più in generale, sociale. Circa la figura dell’assistente familiare, il lavoro che sta facendo la Fondazione è fondamentale. Non soltanto negli aspetti assistenziali, ma anche nell’impostazione pedagogica dei loro percorsi. Non si tratta soltanto di formare le persone da un punto di vista tecnico: l’assistente familiare deve capire come stare accanto alla persona che accudisce, come relazionarsi con la famiglia, con il mondo esterno. Deve essere preparato soprattutto dal punto di vista umano. Per questo tipo di lavoro non sono sufficienti le competenze tecniche: capacità empatiche e carità sono necessarie, anzi prioritarie, per una cura di qualità. Gli assistenti familiari influiscono positivamente sui nostri cari. Io ricordo con molto affetto le persone che sono state accanto a mia madre: il bene che le hanno dato non è stato inferiore al bene che cercavamo di offrirle noi familiari».
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